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Biografia






   Michele Corona nacque in una ridente cittadina su un promontorio della costa occidentale dell’isola d’Ischia (Forio d’Ischia), il 25 ottobre 1906, dove la famiglia si era temporaneamente trasferita per stare vicina al papà Vincenzo, pittore e decoratore, che in quel periodo aveva trovato, insieme a un gruppo di colleghi, molte occasioni di lavoro, tra cui la decorazione della Chiesa del Soccorso situata a picco sul mare.

   La famiglia ritornò a Monopoli nell’estate del 1912: Michele non aveva ancora compiuto sei anni.

  

   Il padre Vincenzo e la madre Marianna si dedicavano con amore all’educazione dei figli: Tommaso, Michele, Bruno, Angelina, Maria e Carmela (detta Melina), in un clima sereno, alimentato da reciproco affetto, ma anche abbastanza austero.

   In casa la musica faceva da padrona. Papà Vincenzo, oltre al suo lavoro di pittore, suonava molto bene il contrabbasso e presto anche il figlio Tommaso imparò a suonare il violino. Mamma Marianna se la cavava onorevolmente con la chitarra, Angelina e Maria avevano una bella voce e sovente si improvvisavano cori familiari che cementavano l’amore reciproco e l’armonia .

   Presto anche Michele incominciò a manifestare la sua innata propensione per la musica e il papà, intuendo le sue straordinarie capacità, acquistò un vecchio pianoforte dalle gambe amputate che collocò su due sedie per consentire al figlio di esercitarsi.

Michele frequentava gli studi fino alla scuola media, mentre si esercitava in casa su quel pianoforte; era ancora ragazzo quando imitava il padre tentando di eseguire le stesse musiche


   Fu grande sorpresa, grande gioia per suo padre, che gli fece impartire lezioni dall’insegnante Addolorata Sardella  che pian piano lo introdusse nei segreti dell’arte pianistica.
Il ragazzo faceva progressi e, giorno dopo giorno, aumentava il suo interesse per le composizioni musicali; così il padre  acquistò un altro pianoforte, non nuovo ma in buone condizioni.

   L’occasione che determinò l’avvio decisivo allo studio sistematico del pianoforte, fu una festa organizzata in uno dei modesti salotti culturali di alcuni nobili della città, quello di donna Cecchina Troia,  in cui Vincenzo col figlio Tommaso ed altri colleghi erano stati invitati per suonare. Il papà portò con sé anche il piccolo Michele che, seduto al pianoforte, incantò tutti per la sua precoce abilità nel padroneggiare lo strumento, al punto che Don Clemente Meo-Evoli, sorpreso dalla esecuzione, esortò il padre del ragazzo ad avviare il figlio ad uno studio più approfondito della musica.

   Fu così che papà Vincenzo, orgoglioso dei progressi di Michele, lo affidò una volta a settimana al M° Nicola Costa  di Bari che gli impartiva lezioni per prepararlo ad affrontare da privatista l’esame al Conservatorio di Napoli. Michele si impegnò con passione nello studio del pianoforte, acquistando presto una tale padronanza da poter interpretare con straordinaria sensibilità pezzi famosi dei suoi autori preferiti: Bach, Chopin, Beethoven ed altri.
Quasi ogni sera poi in città, con il padre e il fratello Tommaso, collaborava nel produrre il sottofondo musicale per il cinema muto, anticipo della futura colonna sonora.

   Assieme allo studio, si esercitava anche nell’arte pittorica, aiutando suo padre Vincenzo nel suo lavoro, specialmente nella preparazione dei decori che poi avrebbero abbellito le case più belle di Monopoli e non solo.
Proseguì con uguale passione nello studio e il 30 giugno 1929 conseguìla Licenza di Materie Complementari (solfeggio e armonia) presso il Regio Conservatorio di Musica “San Pietro a Majella” a Napoli; il Compimento Superiore di Pianoforte (Diploma) lo otterrà a Bari nell’anno 1954 presso il Liceo Musicale Consorziale “Nicolò Piccinni”. Questo traguardo gli consentirà un inserimento nella Scuola Statale, dapprima con incarichi annuali e con stabilizzazione del rapporto dal 1° ottobre 1963, come insegnante di musica e canto corale presso l’Istituto Magistrale Statale di Conversano (BA).

   Nel frattempo il Capitolo della Cattedrale di Monopoli era alla ricerca di un maestro di cappella per l’utilizzo dell’organo monumentale Francesco Consoli che nel 1922 era stato inaugurato da illustri nomi del panorama nazionale ed internazionale. Si pensò subito di proporre il giovane Corona e di indirizzarlo (a spese del Capitolo) al Santuario  di Oropa dall’organista e noto compositore Don Pietro Magri  (allievo del Perosi) ,per far pratica di organo e canto gregoriano.

   Il soggiorno a Oropa era preventivato per sei mesi ma, grazie alle doti e ai risultati ottenuti, il giovane organista poté rientrare a Monopoli dopo solo tre mesi.
È interessante notare come tra lui e il Maestro si fosse stabilita una profonda amicizia testimoniata anche dalla corrispondenza epistolare e da una affettuosa dedica autografa apposta su un grande ritratto di don Pietro Magri, conservato gelosamente dal Corona.
   

   A Don Pietro Magri intitolò la prima corale da lui fondata in cui profuse la sua passione per la musica e le sue qualità di paziente educatore. Proprio in quegli anni cominciò a comporre musica sacra, che poi faceva eseguire ai suoi giovani.

   Ma torniamo al contratto stipulato presso la Basilica Cattedrale di Monopoli che vedeva vincolato il giovane organista alle dipendenze del Capitolo per un periodo di sei anni e con un compenso mensile di £ 500. Da questa somma si sarebbe stata sottratta la quota di £ 100 per ripagare il Capitolo delle spese sopportate per gli studi ad Oropa, spese complessive di circa £ 3800.

   Il 29 Marzo 1930, il giovane maestro teneva già il suo primo concerto d’organo, a poco più di 23 anni, nella Basilica Cattedrale “Maria SS. della Madia” (Monopoli) eseguendo musiche di Dubois, Magri, Ropartz, Franck, Chopin, Beethoven, Bach e Bossi.
Il quotidiano Il Giornale d’Italia  del 3 aprile 1930, nelle note di cronaca pugliese, riferisce l’avvenimento con ammirazione per la maestria del giovane organista.



   Allo scadere dei sei anni il Capitolo ridusse lo stipendio a £ 300, conservandolo così fino agli anni Cinquanta, con le conseguenze che si possono immaginare per la famiglia che andava crescendo di anno in anno.  
   
  Nel 1952, quando il compianto Mons. Carlo Ferrari  fu informato di ciò, “provò un tal sdegno nei confronti dei suoi capitolari per il loro comportamento ignobile” a detta dello stesso Corona.


   Nel 1931 il giovane Michele fondò la Schola Cantorum “Don Pietro Magri”. Promosse ed assecondò iniziative per suscitare interesse per la musica come il Concerto lirico “Pro-Patrioti” da lui diretto nell’estate del 1944 con musiche di Leoncavallo, Rossini, Verdi, Schmit, Puccini, Liszt e Schubert.

   Non sappiamo esattamente la data, ma è certo che risale a quel periodo l’amicizia con Amedeo Bregante   che gli propose di musicare due canti profani in dialetto monopolitano divenuti poi famosi: U’ peschet’re e A’ cuzzaledde berefatte.
La fama del novello organista e pianista si diffondeva in città e così si moltiplicavano gli impegni a servizio delle parrocchie e di circoli culturali.
Decisivo fu per la sua vita quello che assunse, su invito dell’allora parroco Don Vito Bini, di formare la corale femminile della Parrocchia Sant’Antonio di Monopoli.

   Tra le giovani coriste spiccava, in particolare, Lucia Centrone dotata di un’ottima voce da soprano della quale il giovane maestro si innamorò presto . L’approccio non fu facile, data la mentalità del tempo, ma tra i due ci fu subito una profonda intesa che durò per tutta la vita.

   Il periodo di fidanzamento fu breve (circa tre mesi) a causa della forte opposizione della famiglia di Michele, soprattutto della mamma Marianna, che aveva progettato per il figlio prediletto un matrimonio con una ragazza di elevata condizione sociale.
Pressioni psicologiche, ricatti affettivi, minacce, che lo costrinsero ad abbandonare la casa paterna e a dormire in un albergo, non valsero a piegarlo.

   Mite sì, ma altrettanto forte e determinato, Michele fu accolto a fatica dai genitori della futura sposa che, pur ammirando le sue ottime qualità, non potevano accettare che la loro figlia più giovane fosse rifiutata con tanto disprezzo dalla famiglia del giovane Corona.
Ma per la felicità di Lucia, i suoi genitori e i fratelli cedettero e il matrimonio fu celebrato il 21 gennaio 1934  con l’assenza ostentata dei familiari dello sposo .

   In seguito al matrimonio e alla rottura con la sua famiglia Michele dovette rinunciare al suo vecchio pianoforte, che presto provvide a sostituire con uno nuovo. Ma ancora più soffrì per aver dovuto interrompere l’insegnamento del pianoforte alla sua piccola sorella Carmela (Melina per i familiari), cui si era dedicato con tanto amore.

   Nel dicembre 1936 nacque la prima figlia, Maria Imelda. Tra il 1938 e il 1952 seguirono a breve distanza l’uno dall’altro, Vincenzo (1938), Antonietta (1940), Franca (1942 – 1950), Cecilia (1944), Rosa Lidia (1945), Claudio (1947), Adriano (1948 – 2000), Franca Santa (1950), Gianna Rosa (1952, morta a quattro mesi dalla nascita).

   Il maestro Corona lavorava intensamente, impegnando le sue notevoli capacità che gli avevano permesso non solo di formarsi una discreta cultura umanistica, ma anche di dedicarsi a lavori che gli permettevano di arrotondare lo stipendio: restauro di statue, esecuzione di quadri ad olio, decorazione di salotti, accordatura di pianoforti, oltre agli impegni legati alla sua professione di organista e pianista.

   Sul finire della seconda guerra mondiale, in collaborazione con la famiglia Verdegiglio, inventò dei giocattoli di legno (papere che muovevano le ali, marinaretti ecc.) che, opportunamente dipinti in collaborazione con la sorella Melina e la nipote Nina, venivano poi messi in vendita nelle fiere del paese.
Di lui colpiva una profonda serenità di spirito, alimentata da una fede salda, dall’amore alla famiglia, da un innato ottimismo che gli permetteva di guardare al futuro con fiducia:

    «Nei momenti più bui la musica era l’antidoto alla tristezza. Sedersi al pianoforte e riversare sulla tastiera la ridda di sentimenti che affollavano l’anima era per lui un’ancora di salvezza, un ritrovare la calma dopo la tempesta, un elevarsi al di sopra delle miserie del quotidiano per schiudere l’anima a orizzonti sconfinati di bellezza e di pace».

   Scoppiata la seconda guerra mondiale, nel 1939 fu chiamato alle armi e destinato all’Albania.
La notizia gettò nell’angoscia la famiglia: la moglie sarebbe rimasta sola con i suoi tre bambini ancora piccolissimi, senza solidi mezzi di sussistenza.
Fu l’intervento provvidenziale di Mons. Gustavo Bianchi, allora Vescovo di Monopoli, ad escogitare facendo pressione sulle autorità competenti per non essere privato dell’organista della Basilica Cattedrale, un compromesso: il Maestro ,lui che aveva sempre rifiutato la tessera del partito fascista , sarebbe stato destinato alla Batteria antiaerea che si trovava nella zona di Pantano (in Monopoli).

   La famiglia, per sicurezza, fu trasferita prima a Locorotondo e successivamente nella contrada monopolitana di San Gerardo, seguendo gli spostamenti dei nonni materni che si erano momentaneamente allontanati da Monopoli per lo stesso motivo .
Con il consenso del comandante ogni tanto faceva delle visite fugaci in campagna. Proprio dopo una di quelle fughe notturne, l’8 settembre fu tempestivamente avvertito da un contadino di non rientrare a Monopoli in divisa (con la camicia nera che suo malgrado era stato costretto ad indossare entrando di necessità nella Milizia) perché la radio aveva annunciato la caduta del Fascismo.

   Finalmente poté riportare la famiglia in città, in via Cimino 4, dedicandosi a tempo pieno al suo lavoro.
Dopo lo sbarco degli alleati, un ufficiale inglese appassionato di musica classica, avendolo sentito suonare l’organo in Cattedrale, gli aveva chiesto se era possibile ascoltare al pianoforte qualche brano dei suoi autori preferiti. Ne nacque così una bella amicizia e anche l’idea di organizzare un concerto di musica lirica.

Nel frattempo il Maestro, per arrotondare i poveri guadagni, approfittò di questa amicizia e quasi tutte le sere, una camionetta inglese, mandata dal suo amico ufficiale, lo prelevava da casa e lo portava alla Selva di Fasano a suonare per gli alleati, riportandolo a fine serata a casa con qualche provvista alimentare e un pò di danaro.

   Non sappiamo esattamente come riuscì a venire in contatto con il gruppo di dilettanti che preparò con costanza, pazienza e passione ad interpretare celebri romanze con abilità ed entusiasmo. Tutte le sere la casa risuonava di quelle melodie ripetute all’infinito, tanto che i bambini, a furia di sentirle ripetere, le sapevano quasi a memoria.

   Negli ultimi anni della guerra, stimato da tutti per la sua indole di persona onesta, quando ne ebbe occasione, aiutò coloro che si trovavano in difficoltà per il loro passato politico, nei confronti dei quali provava un senso di umana pietà.
Fra i vari lavori svolti nel corso della sua vita  possiamo annoverare anche l’incarico, ricevuto dal Comune di Monopoli, di distribuire nel territorio rurale le tessere annonarie. Era solito aiutare i contadini analfabeti a compilarle, ricevendone a volte in cambio prodotti agricoli.

   Sebbene impegnato a provvedere, senza mai perdersi d’animo, ai bisogni della famiglia, Michele Corona riservava sempre una parte del suo tempo alla musica. In collaborazione con Ennio Cardinale che si era occupato della stesura del libretto, compose Silvana, un’opera lirica in tre atti dedicata alla figlioletta Franca, morta nel gennaio 1950, dopo aver ripetuto “Quanto è bella la Silvana! La Silvana, l’opera di babbo” .  

   Era Capodanno e il Maestro era stato invitato a suonare a Castellana Grotte: vi si recò il pomeriggio precedente: nel contratto era incluso il soggiorno in albergo per la notte.  Secondo le fonti a noi disponibili, Corona, conclusa la serata, avrebbe avvertito il bisogno di ritornare immediatamente a casa.
Era oltre l’una di notte e, non potendo più resistere andò a bussare alla porta di alcuni conoscenti, i Pantaleo, chiedendo loro in prestito una bici per poter rientrare al più presto a Monopoli. Nulla  valse a fargli cambiare idea.

   La sera precedente infatti sua figlia Franca, incuriosita dal funzionamento di un fornello (Primus a petrolio), su cui bolliva una pentola colma d’acqua, ne aveva azionato la pompa di ricarica, provocando una terribile doccia bollente da cui era rimasta investita. Soccorsa subito in casa con rimedi suggeriti dal farmacista, giaceva nel suo lettino con il corpo ricoperto da grosse vesciche.
Appena il papà entrò in casa chiese ansiosamente cosa fosse successo. Informato dell’accaduto, immediatamente chiamò un taxi e, accompagnato dalla moglie portò la piccola all’ospedale di Monopoli. Tutti i rimedi risultarono vani  poiché nel frattempo era sopravvenuto un blocco renale.

   A mezzanotte del giorno seguente la piccola Franca morì, ricevendo la prima Comunione sul suo lettino d’ospedale.
Ai funerali, organizzati con grande cura, parteciparono un gran numero di amici e giovani allievi e, per far fronte alle spese,si privò di quanto poteva avere di più caro: il suo pianoforte.

   Michele Corona non si lasciò abbattere dalla sventura, ma da questa seppe trarre la forza per riprendere, con rinnovato vigore, il suo lavoro.
Non aveva più il suo pianoforte, ma continuava a dare lezioni recandosi in casa degli allievi. Tra questi c’erano le figlie dell’ingegnere Restuccia, Tonia e Rosa, che gli davano grandi soddisfazioni per la delicatezza del tocco e l’impegno nello studio. Ne era sbocciata una grande amicizia, tanto che Rosa divenne la madrina di Battesimo della piccola nata dopo la morte di Franca e che ne aveva ereditato il nome.
I Restuccia, inorgogliti dai progressi delle figlie, decisero di acquistare un pianoforte più bello e più efficiente, donando quello precedente al Maestro che lo usò fino a quando poté acquistarne un altro, quello di cui si servì fino alla morte.

   In questo periodo Michele Corona strinse amicizia con il Prof. Nicola Uva , sindaco di Mola di Bari, che gli affidò, per l’insegnamento del pianoforte, i due figli Pupetta e Mimì, quest’ultimo divenuto poi celebre per il suo vivace talento musicale (orchestra RAi - Bari). La signora Uva lo presentò alle sue amiche e così aumentarono gli allievi da cui si recava settimanalmente in treno, dopo le ore dedicate in mattinata all’insegnamento nella Scuola Media di Monopoli.

Gli anni Cinquanta

   È un periodo importante, quello che impresse una svolta decisiva alla vita del Maestro.
Accogliendo le sollecitazioni del senatore Luigi Russo, uno dei suoi grandi amici e ammiratori del Maestro, Michele decise di completare gli studi interrotti nella giovinezza per dedicarsi all’insegnamento nella scuola statale. Nel 1954 conseguì il diploma presso il Conservatorio di Musica “Niccolò Piccinni” di Bari e qualche anno dopo, a Roma, l’abilitazione all’insegnamento.

   Nel 1965 si trasferì a Conversano, dove fu docente di Musica e Canto corale presso l’Istituto Magistrale Statale sino all’anno 1968/1969.
Successivamente, dal 1969 al 1975, completò la sua carriera d’insegnante presso la Scuola Media Statale  “Dante Alighieri” a Mola di Bari, dove aveva peraltro lavorato negli anni 54-55. Il Preside e il personale della predetta Scuola, nell’anno 1975, in occasione del pensionamento, organizzarono una commovente cerimonia di saluto in cui vollero onorare il Maestro con una significativa medaglia d’oro.  
Al riguardo preme ricordare che fu proprio nell’insegnamento che il Prof. Corona seppe meglio esprimere le particolari doti di umanità, capacità di ascolto e accoglienza, di aggregazione e trasmissione di entusiasmo ai valori della bellezza in tutte  le sue forme ed in particolare alla musica e alla pittura, a lui riconosciute dai tanti alunni e dai colleghi.
Nell’anno 1965/66, in occasione della festa di S. Benedetto, compose – parole e musica - l’Inno intitolato “Canto di Primavera” , curandone l’esecuzione da parte di tutti gli alunni.
Nell’anno scolastico 1967/68, in occasione della festa di S. Benedetto curò l’esecuzione del  brano “Ave Maria” di Tomas Luis Lodovico da Victoria (1580-1611), con un coro costituito da ben 110 alunni prelevati dalle varie classi dei suoi corsi. La manifestazione corale suscitò il plauso di tutti ed in particolare del Prof. Matteo Fantasia , il quale invitò gli stessi studenti  a partecipare, sotto la guida del Maestro Corona, alla Rassegna Provinciale di Canto corale indetta dal Provveditorato agli studi, tenutasi presso il Teatro N. Piccinni di Bari. Nell’occasione fu altresì eseguita dall’opera “Cavalleria Rusticana” di Mascagni la “scena e preghiera” . Il pubblico e la giuria, presieduta dal Maestro Nino Rota, all’epoca direttore del Conservatorio “Niccolò Piccinni”  espressero vivo compiacimento e apprezzamento, ritenendo il coro meritevole del 1° premio, pur in assenza di altri cori di Scuole Medie Superiori in concorrenza.

   A seguito della conclusione della carriera scolastica, per un breve periodo seguì  nell’insegnamento del piano alcuni allievi “prediletti”, da lui scelti perché ritenuti capaci di proseguire brillantemente nello studio dello strumento. Alcuni fra questi ,tra i quali il noto pianista e concertista M° Michele Francesco Battista,  furono presentati in un pubblico concerto che si tenne alla presenza del Maestro Nino Rota, presso il Teatro Van Westerhout di Mola.

   Contestualmente poté dedicarsi completamente e con maggior “serenità”   alla “sua musica” , alla pittura e alla lettura, concedendosi finalmente anche qualche breve viaggio. Annualmente amava recarsi a Moncalieri, in provincia di Torino, con il suo amato “maggiolone”, carico di ogni bene da offrire alla comunità delle Carmelitane Scalze presso il Carmelo S. Giuseppe, dove vive la sua diletta primogenita Sr. Maria Imelda. Questa tradizione si è protratta fino agli ultimi anni di vita; infatti, benché cardiopatico, egli affermava di sentirsi “in forma” alla guida della sua auto mentre si dirigeva all’incontro con “la figlia di sangue e le figlie di purissimo amore”  .
Inquesti soggiorni scrisse e/o  completò alcune composizioni sacre, che dedicò al Carmelo e ai santi Teresa di Gesù e Giovanni della Croce.
Circondato da una famiglia che amava in lui il padre sempre attento, sensibile, discreto, il punto di riferimento nei momenti di incertezza, l’esempio a cui riferirsi nelle vicissitudini della vita, una famiglia da lui amata teneramente , che oltre ai figli, nuore e generi si era arricchita di ben quindici nipotini, trascorse gli ultimi anni della sua vita alternando momenti di grande gioia e serenità, in cui appunto poté dare spazio alla sua innata creatività, a momenti segnati dalla sofferenza fisica.

….al compiersi della sua vita

   Gli ultimi anni della sua vita furono infatti segnati da problemi di salute che sopportò con grande pazienza e fede; il cappellano dell’Ospedale di Conversano, Don Vincenzo Togati, racconta di come sia stata una grande fortuna averlo potuto ascoltare, sondare la profondità della sua fede, la certezza della sua speranza e il calore altissimo della sua carità, come ricorda con attenta memoria.

   Il 22 maggio del 1984 si spegneva serenamente, quasi all’improvviso, consegnando come suo ultimo ricordo ai presenti, non precetti e raccomandazioni, ma la sua testimonianza di fede, il suo amore tenerissimo alla Vergine, la consapevolezza di essere ormai vicino al traguardo: l’incontro faccia a faccia con Colui che, pur nei limiti della sua condizione di creatura, aveva cercato di seguire e servire con fedeltà e amore.
Il 6 Aprile 1981 per un inno da lui composto alla Regina del Carmelo, confidava il suo disappunto perché qualcuno aveva disapprovato l’ultimo versetto di un suo canto composto – testo e musica – per la Vergine del Carmelo:

"Ho dovuto soffrire un tantino per quel verso conclusivo
con l’imperativo “Tu m’ascolta!”
Io ho creduto che andasse bene ma…
mi hanno un po’ tutti tacciato quasi d’ignoranza.
Però cocciutamente l’ho lasciato così,
pregando la Madonna che almeno quando non vedrò più
e nessuno udrà la mia voce, Ella sola oda pietosa,
la preghiera muta di questo  umile servo peccatore e
guidi la mia anima al Cielo per riposare finalmente in pace "



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